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Nella Teheran di oggi si aggira uno strano taxi…Raccoglie gente, la più disparata: vi sono gente normale, bambine, avvocatesse….; parlano e sono filmati. Jafar Panahi, regista iraniano, pluripremiato come Abbas Kiarostami, di cui è stato assistente, e riconosciuto come uno dei talenti, non solo dell’Iran, ma di tutto il cinema, è impedito di girare film. A lui, fin dal bellissimo “Il palloncino bianco” (95) , sua opera prima e premiata a Cannes, sono sempre toccati riconoscimenti di grande prestigio internazionale: ma dal 2000, i suoi film non sono stati più proiettati in Iran. Nonostante gli appelli di molti intellettuali in tutto il mondo, Panahi non può nemmeno girare film, sistematicamente proibiti dalla censura degli Ayatollah, addirittura già in sede di sola sceneggiatura; e lasciare il paese. Allora che ha fatto? Si è inventato questa modalità di simil-candid camera, piazzata sul cruscotto del taxi che aveva nel frattempo rilevato, e con questa “armatura” si è messo a incontrare e filmare la gente. Il film (IRAN, 15) è insolitamente breve (82min): proprio perché mantiene intatta questa modalità di sole interviste. Stilisticamente, anche se con una buona dose di originalità, è più vicino al cinema di realtà, ovvero al documentario: manca in effetti lo sviluppo di una storia fictional. Però si ha l’impressione che i dialoghi siano stati, se non preparati accuratamente, almeno impostati prima. Comunque quel senso di vita vera, fluido, casuale e inarrestabile, affiora con decisa autenticità. Alcuni dialoghi sono surreali, ma ricchi di ironica umanità : come quello con le due signore anziane; qualche altro è evidentemente organizzato: come quello con la sua nipotina prediletta, vispa e saputella, ma nonostante tutto simpatica e vera. Qualcun altro ha il senso di una realtà in profonda trasformazione, nonostante le censure e le repressioni : quello dello “spacciatore” di dvd di cultura cinematografica, proibiti, che fa conoscere al regista uno studente suo ammiratore. Da ciò si evince che l’Iran, nonostante il suo regime, è un paese con forti aperture nelle sue popolazioni giovanili e urbanizzate, assetate di modernità, di libertà e di progresso. E poi c’è lo spaccato della lotta alla censura: quel dialogo con la sua forte e valorosa avvocatessa ci indica che c’è che non si piega e spera nel futuro e nel cambiamento. Il tutto fino ad un finale a suo modo beffardo, che mette di fronte all’imponderabilità del caso e della vita.  È un film saturo di intelligenza. Girato con mezzi non particolarmente sofisticati, è comunque di accettabile fattura: oggi col digitale, vi possono essere riprese in totale libertà sia produttiva che espressiva. Del resto, lo stile di Panahi, che si dichiara figlio del Neorealismo italiano, ha sempre coniugato senso della realtà e capacità di cogliere attimi di verità umana e sociale. E ciò ci fa capire come la lotta perseverante e instancabile per l’affermazione dei diritti inalienabili della libertà d’espressione, possa avere anche le forme di una “capata” (furbata), fatta con astuzia e intelligenza per continuare a combattere ed esprimersi, contro ogni censura.

Il film Taxi Teheran sarà proiettato, nell’ambito dell’VIII festival del Cinema dei Diritti Umani, martedì 10 novembre alle 20 al Cinema Roma di Portici, in via Roma 55, in collaborazione con la Federazione Città del Monte e il Cinema Roma.

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