DUE GIOVANI REGISTI ITALIANI HANNO PRESO PARTE ALLA MANIFESTAZIONE DI CHIUSURA DI CORTI DENTRO 2022

Sono Flavio Ricci, napoletano, e Francesco Cibati, parmense, i due giovanissimi registi vincitori dell’edizione 2022 di CORTI DENTRO, la competizione filmografica aperta alle giurie composte dagli ospiti delle carceri italiane a cui quest’anno, in Campania, hanno partecipato le Case Circondariali di Secondigliano, Poggioreale e Airola.

Giovedì 16 giugno è stata la volta buona per averli con noi, all’interno del Carcere di Secondigliano, dove hanno incontrato una parte della giuria che ha votato le loro opere e con cui hanno potuto scambiare opinioni, battute e un po’ di ricordi e promesse.

Flavio Ricci, col suo lungometraggio “Sic Est”, collabora da tempo con i Maestri di Strada, la storica organizzazione partenopea che opera prevalentemente nei quartieri di Napoli Est (S. Giovanni, Barra, Ponticelli) per il recupero dei ragazzi che hanno abbandonato la scuola o che sono testimoni di esperienze devianti.

Francesco Cibati, autore del brevissimo “Umar”, è altrettanto impegnato nella solidarietà con Linea d’Ombra, l’associazione triestina guidata da Lorena Fornasir e Gian Andrea Ronchi, famosa per l’umanità con cui accoglie i migranti provenienti dalla rotta balcanica.

I loro film sono due tracce esemplari di come il lavoro silenzioso delle associazioni umanitarie riesca spesso a supplire alle carenze (e all’ indifferenza) delle istituzioni verso problemi enormi di emarginazione e sofferenza che vanno dal degrado urbano all’odio per chi fugge dalla guerra, dalla fame e dalla persecuzione politica e religiosa.

Due città a confronto, Napoli e Trieste, due organizzazioni umanitarie di grande valore in azione e, in mezzo, il Cinema dei Diritti Umani, lo strumento a cui i due giovani autori si riferiscono per lanciare la loro testimonianza nella società civile tutta, ma anche al popolo delle carceri, perché nessuno si senta escluso dalle trasformazioni che sono in corso nella società e, anzi, ognuno sia stimolato a comprendere la sofferenza e il bisogno di umanità che viene da queste aree dimenticate.

Abbiamo chiesto cosa sia rimasto, nella memoria di questi giovani autori, dell’edizione n. 9 di Corti Dentro e di questa giornata nel carcere di Secondigliano, del lungo colloquio avuto con quaranta detenuti, con gli educatori, con i responsabili della struttura.

Ascoltiamo le loro parole, non hanno bisogno di commento, ma solo di un grazie profondo perché ci ripagano del nostro lavoro, spesso poco conosciuto, ma sempre gratificante.

FRANCESCO CIBATI

Sono stato nel carcere di Secondigliano a Napoli. Per questo devo ringraziare, anche, un amico pakistano. Si chiama Umar, ha ventisei anni ed è arrivato in Italia a piedi. Ho fatto un piccolo cortometraggio seguendo per due giorni il suo quotidiano, facendogli narrare la propria storia in prima persona. Umar ha rischiato l’amputazione della gamba destra a causa di profonde ustioni inflitte dalla polizia croata. Ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze di un potere gestito male.

La storia di Umar è stata raccontata più e più volte, arrivando fino a Corti Dentro, un festival cinematografico prezioso quanto particolare, che intreccia cultura e i diritti civili dei carcerati. Ho scoperto con gioia incredula di aver vinto una delle due sezioni del concorso e soprattutto di poter incontrare parte della giuria che ha visto e giudicato il mio primo cortometraggio dall’interno di un carcere. Una possibilità forse più unica che rara, per la quale ho preso ben volentieri un treno da Trieste, l’estremo opposto della penisola.

Entrare nel carcere è stata un’esperienza a sé, prima ancora dell’incontro in programma. I controlli, la lunga camminata costeggiando il perimetro di alti caseggiati grigi, cinti da mura alte cinque, sei metri, l’impossibilità di passare dall’interno perché ci sono i bracci di massima sicurezza e infine l’arrivo nel periferico e colorato braccio di media sicurezza, chiamato “Mediterraneo”, dove veniamo accolti calorosamente.

Va detto che nella sezione “Mediterraneo” di Secondigliano gli ambienti sono vissuti, in qualche modo si discostano dal cliché della prigione: ci sono murales dipinti dai detenuti, un sistema di posta per raggiungere lo psicologo, il parroco, il bibliotecario e vari altri operatori. Non ci è dato di vedere le celle, siamo invece accompagnati in una grande sala dove stanno una quarantina di sedie. All’inizio la sala è vuota. Si parla con Maurizio, Gabriella, Flavio e alcuni agenti dell’istituto. I temi non sono semplici, tutti hanno presente le criticità del sistema carcerario in Italia, i fatti di cronaca attraverso gli anni non danno un’immagine buona di questa istituzione. Sarà per questo che avverto la forte necessità, da parte di chi gestisce e anima il carcere, di fare presente tutto l’impegno profuso e rendere evidenti i risultati raggiunti, gli spazi che si discostano dalla mera reclusione, come la sartoria, i campi da gioco, i diplomi e le lauree ottenuti dai ragazzi detenuti. Anche la nostra presenza in quel luogo in quel momento è un chiaro segnale positivo. In qualche modo è anche un privilegio, tanto per noi che entriamo in un luogo proibito quanto per le persone che, nel frattempo, iniziano a riempire la sala, che possono fruire di cultura.

Nel carcere di Secondigliano alloggiano 1300 detenuti. Io ne ho incontrati una quarantina. Persone interessanti e interessate, con le quali abbiamo parlato di legge e medicina, ricerche scientifiche e temi sociali già prima di metterci a sedere. Tutti stanno perseguendo un obiettivo: chi una laurea in ingegneria, chi in giurisprudenza, chi un diploma tecnico, chi una certificazione di lingua.

Un pensiero mi ha colpito, limpido, cristallino: di tutte le persone fagocitate dentro Secondigliano stavo conoscendo i fiori all’occhiello, quei fiori di cui cantava De André, che non nascono dai diamanti. La controparte invece, i rinnegati, le bestie senza speranza – gli abitanti della città vecchia, per dirla sempre con Faber – non l’avrei vista.

L’incontro ha avuto un’intensità crescente. Il coinvolgimento di chi faceva domande e il nostro nel rispondere ha fatto volare via le due ore d’incontro. Quasi ogni persona presente in sala a un certo punto si è alzata, si è presentata, e ha indirizzato una domanda precisa, profonda, a me oppure a Flavio, sempre a partire dai nostri film. Ogni domanda è stata uno spunto per affrontare i temi stringenti e attuali del nostro vivere in questa città, in questa penisola o in questo modo. Il tema delle migrazioni e dei diritti umani si intrecciava d’improvviso con le condizioni detentive, con gli sbagli che portano a trovarsi in carcere, creando un terreno comune nella speranza di una prospettiva, di una vita dignitosa. La materia che ha condannato queste persone è la stessa che critico quando inveisco contro i confini, quando ripeto all’ossessione che la democrazia riguarda il popolo, la protesta, ben prima che lo Stato, l’ordine e il potere costituito in gerarchia.

È difficile ambire ad un miglioramento se non si accetta il conflitto che sempre lo precede. Conflitto è critica e ricerca, è una cosa sana, sia quando rivolto a sé, sia quando rivolto all’esterno, al mondo che vogliamo migliorare. L’istituzione carceraria non è esente da questo.

Dentro il carcere di Secondigliano ho conosciuto persone determinate a guadagnarsi un posto dignitoso nella società. Non so la ragione per cui siano finiti lì dentro – nemmeno sono convinto che il carcere in sé, per com’è fatto oggi, sia qualcosa di sensato – non è importante. Importante è che si continuino a creare degli spiragli per cui la società, la socialità e la cultura possano permeare nei luoghi di reclusione. La clausura va compromessa. È indispensabile trovare un compromesso di apertura, perché non si può immaginare una vita dignitosa là dentro se non in funzione di un fuori che deve r-esistere nella mente di un recluso, che va ricordato con costanza, che non può essere cancellato, annichilito giorno dopo giorno da mura grigie e sbarre. Malgrado gli sforzi di chi vi lavora quotidianamente, malgrado le speranze di chi vi perde anni di vita in reclusione, se non ci saranno sempre più occasioni di scambio con l’esterno, con la parte più bella, generosa e creativa della società, le prigioni resteranno sempre e solo pattumiere.

La fatica necessaria ad organizzare questo singolo incontro, esperienza fortissima, è stata tanto grande quanto encomiabile. Sperando di non essere preso per ingenuo utopista concludo: appuntamenti come questo dovrebbero accadere ogni settimana, in ogni carcere del mondo.”

FLAVIO RICCI

Sic Est è un piccolo film, anzi è forse definibile più come un racconto per immagini dei sogni e delle esperienze di un gruppo di ragazzi di Napoli est, seguiti nel loro percorso di crescita dalla onlus Maestri di Strada. Questo prodotto così lontano, anche orgogliosamente, dall’essere un film “canonico”, e così invece “reale e puro” nel raccontare degli spaccati di vita, ha quindi intercettato il Festival Internazionale dei Diritti Umani di Napoli che ci ha selezionati sul finire del 2021. Sono state le parole stesse di Maurizio Del Bufalo a sottolineare il valore sociale ed umanitario di questo documentario, che ha ricevuto una menzione speciale come prodotto più apprezzato dal pubblico. Tale riconoscimento ci ha consentito di essere tra i film proiettati ad una rassegna particolare, “Corti Dentro”, che si è tenuta nelle case circondariali della Campania. Ebbene, Sic Est è stato il lungometraggio più votato dai detenuti. Quindi, grazie all’intercessione della Dott.ssa Gabriella Di Stefano, il giorno 16 giugno del 2022 ho potuto incontrare alla CC di Secondigliano una delegazione che aveva visionato e votato il mio film.

L’incontro è stato, senza mezzi termini, entusiasmante. I partecipanti al dibattito erano qualche decina. Io e Francesco Cibati, regista del cortometraggio più votato, siamo stati introdotti da Maurizio Del Bufalo e poi letteralmente travolti da moltissime domande sui nostri film e sulle realtà che raccontano. Si è spaziato dall’interesse per la produzione tecnica al lavoro svolto dall’associazione educativa dei Maestri di Strada; si è riflettuto sull’urbanistica e sulle dinamiche politiche che attanagliano alcuni territori più di altri; si è chiaramente riconosciuto come il nostro paese sia amministrato in larga parte da un potere autoreferenziale e corrotto; si è arrivati a parlare di libero arbitrio, di dualismo dell’animo umano, di scelte giuste e sbagliate, di traiettorie casuali della vita che ti portano in posti dove non pensavi di arrivare ma anche della scelta volontaria di votarsi al caos. Alcuni hanno riconosciuto di essere stati quei ragazzi che hanno visto sullo schermo, con quei desideri e quei sogni, prima di perderli. Insomma i botta e risposta sono stati molto intensi e il clima particolarmente disteso ha generato, seppur per poche ore, una reale interconnessione tra noi e i detenuti, tanto che alcuni, tra i più giovani, che sono anche in procinto di diplomarsi, hanno mostrato un grande desiderio di proseguire su questa strada, addirittura augurandosi di poter girare qualcosa con il sottoscritto nel prossimo futuro. Il desiderio è di pari intensità anche da parte mia quindi spero sia foriero di sviluppi. Dulcis in fundo, alcuni detenuti ci hanno omaggiato di un borsello, cucito a partire da materiali di riuso.

Per quanto rimarrà come uno dei momenti professionali e umani più belli tra i miei ricordi, il tempo a disposizione per interagire, non solo con i detenuti, ma con il progetto nel suo insieme è stato relativamente poco per poter esprimere un giudizio esaustivo. Sono certo di una cosa: se il carcere è un luogo che ha come sua massima funzione la riabilitazione, allora non si può prescindere dal perseguire questo obiettivo anche attraverso attività come quella a cui ho avuto l’onore di partecipare. Sogno un approccio sistemico di questo tipo, consapevole che ogni cosa che sembri logica e giusta vada urlata e bisogna lottare per ottenerla. Lo spirito con cui è stato realizzato questo film e tutto ciò che gli sta intorno è nel solco di questa lotta e di questi sogni. Mai arrendersi. “

Grazie a tutti voi, amici ed amiche che avete partecipato a questa breve avventura oltre le sbarre. Continueremo con voi a costruire opportunità per i detenuti e le detenute, a Napoli ed altrove, con l’aiuto del Cinema, perché la cultura è strumento di vera rieducazione e ci aiuterà a riprenderci la vita che ci è stata tolta, aprendoci le prospettive di una nuova esistenza, più emozionante della precedente.

Maurizio del Bufalo