La parola “politica” a molti non è gradita forse perché, dopo il tempo delle ideologie, generalmente identificato con gli ultimi anni del Novecento, il termine ha perso il suo slancio iniziale e lascia trasparire la faziosità di un disegno spesso associato ad interessi di parte, a piccoli orizzonti locali o addirittura individuali, in cambio dei quali i diritti passano in seconda fila.

Eppure, quando scrivo del nostro Festival del Cinema dei Diritti Umani, non esito a definirlo un Festival di cinema “politico”. Ho imparato dalla frequentazione del Sudamerica a capire che il connubio tra diritti e cinema non è affatto impossibile, anzi a volte è necessario perché sa raccontare, meglio di tante parole, il dolore di chi lotta per liberarsi da schiavitù e ricatti, per cercare quella giustizia sociale che pare irraggiungibile. E’ proprio dai paesi più poveri e più oppressi che ho imparato a comprendere che il nostro cinema mancava di qualcosa, che la nostra coscienza aveva bisogno di nuovi strumenti di narrazione, di linguaggi insoliti e innovativi che pure avevamo nel passato e oggi abbiamo in parte dimenticato. Forse perché non soffriamo più come prima, forse perché ci siamo assuefatti a questo piano inclinato che ci porta sempre più giù, senza grosse scosse. Dolcemente.

Frequentando un maestro di riflessione e di modestia come Jorge Denti, argentino, rifugiato a Mexico City per sfuggire alla repressione fascista che falciò un meraviglioso genio come Raymundo Gleyzer, suo compagno di stanza, ho scoperto che il tempo delle utopie non è morto, perché di utopie c’è sempre bisogno, per vivere e sognare, nemmeno troppo lontano dalla realtà. Jorge dice che il cinema è il mezzo migliore non per fare rivoluzioni, ma per nutrire utopie possibili e lui, che ha dovuto vivere nascosto per lungo tempo sognando la sua città lontana, forse ha ragione. Bisogna interrogare il cinema e scoprirne il potenziale rivoluzionario che contiene, che è compresso nelle sue immagini apparentemente innocue, normali. E questo riesce meglio a chi vive sognando un riscatto, un giorno di sole dopo tanto buio.

Così, ho provato a vedere anche nel nostro cinema questo afflato di libertà e di anticonformismo che ho trovato nel cinema argentino e sudamericano degli anni 80 e 90. E ho riscoperto che anche grandi maestri del bel cinema della seconda metà del secolo scorso avevano l’abitudine di sostenere campagne politiche, mentre autori o attori più coraggiosi (Germi, Rosi, Petri, Ferrara, Volontè) non nascondevano i loro caustici giudizi sul pensiero dominante, sulla connivenza della malavita organizzata col potere e intuivano le conseguenze di tanta corruzione sul futuro delle nostre città e della nostra vita.

Mi domando quindi se non sia il caso di rimettere dappertutto questo aggettivo “politico”, accanto al nome “cinema”, senza vergogna e senza arroganza, solo per dire che le ideologie, bontà loro, sono finite e quindi sono finiti anche gli alibi per bandire un termine così nobile dal nostro vocabolario.

Ebbene si, lasciatemelo dire, quello che comincia martedì 27 novembre a Napoli, è un Festival di Cinema Politico, che piaccia o no, perché racconta storie di resistenza a questo declino umano che è sotto gli occhi di tutti e che fa pagare ai più deboli la violenza dei più forti. Accade nel governo della cosa pubblica ma anche nello sperpero di risorse naturali ed ambientali, nell’aggressione a minoranze disarmate che protestano e vengono spacciate per criminali, o nel rifiuto di profughi che fuggono da guerre e miserie.

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E allora se la politica, quella vera e limpida che accompagna i visionari e gli utopisti, fa paura come nel ’68, torniamo allo spirito del cinema di quegli anni del dopoguerra perché, forse, la guerra di liberazione non è mai finita e il cinema deve riprendersi il posto che merita, nel cuore della lotta.

(Estratto dall’articolo di Maurizio del Bufalo, pubblicato su “Diari di Cineclub” il 1/12/2018 per annunciare la X edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli)