Ospite del Festival nel 2018 in occasione della X edizione, Strada lascia a chi lo ha conosciuto e a chi ha cuore la difesa dei diritti umani un compito di responsabilità a cui, da oggi, si è tutti chiamati a contribuire perché non resti lettera muta.

di Maurizio Del Bufalo | coordinatore Festival del Cinema dei Diritti Umani

Foto Cesare Abbate

Per chi crede ancora nel valore della cooperazione internazionale, nella solidarietà senza confini e sogna e spera un mondo più umano e tollerante, scrivere della scomparsa di Gino Strada è un’impresa durissima.
Medico coraggioso e competente, eroe civile laico e pacifista antesignano, il leader di Emergency lascia un testimone che non sarà facile raccogliere, per le enormi qualità tecniche e umane che riassumeva nella sua persona. E non basterà rimpiangerlo e celebrarlo, perché negli ultimi trent’anni siamo stati spettatori ( e a volte protagonisti pavidi e silenziosi) di pericolosi arretramenti delle nostre coscienze su posizioni impensabili fino a pochi anni prima e Gino è stato sempre un antidoto a tutta questa mediocrità.
Il carattere schietto e a tratti ruvido dell’uomo ha fatto spesso da contrasto alla dolcezza di alcune sue pagine e allo smarrimento che sapeva esprimere davanti all’orrore della guerra, la creazione umana contro cui si è sempre cimentato fino all’ultimo giorno della sua esistenza.
Gino ci lascia nel mezzo di un passaggio storico che ha un bisogno assoluto di voci chiare e forti come la sua, per interpretare la nuova guerra che stiamo combattendo contro i poveri di tutto il mondo in difesa di un modello di sviluppo che fa acqua da tutte le parti eppure produce milioni di vittime ogni anno.
Senza essere profeta di ideologie e fedi, Gino Strada si è sempre trovato dalla parte giusta perché ha misurato, con la sua coscienza cosmopolita, gli avvenimenti della storia e si è immediatamente schierato, senza un attimo di esitazione, con i più deboli e contro la guerra. Semplice, lineare, coerente. E’ stato filosofo del possibile fino alle estreme conseguenze, il contrario dell’arzigogolo politico, a volte chiaro fino all’immediatezza più cruda, pur di non lasciare all’interlocutore il beneficio dell’ambiguità.

Foto Cesare Abbate

Ha rifiutato fino alla fine la compassione per la sua fragilità e ha sfidato a viso aperto le evoluzioni del dibattito politico di casa nostra, anche quando prendeva pieghe umilianti; resterà nei miei ricordi la naturalezza con cui, affrontando i cronisti napoletani a margine delle serate del nostro Festival (novembre 2018), definiva il governo Conte composto “per metà da fascisti e metà da coglioni”, mettendo in guardia tutto il Paese (e chi ancora non l’aveva capito) dalla brutta piega che l’Italia stava prendendo, assecondando le xenofobie di una destra impresentabile e tradendo la sua vocazione ospitale e umanitaria. A qualcuno quelle parole parvero volgari e fuori luogo, ma servirono a schiaffeggiare milioni di benpensanti narcotizzati dai media e da certa stampa mainstream. Soltanto lui poteva usare quei toni duri, quel linguaggio radicale e franco, senza tema di essere frainteso. E i fatti gli hanno sempre dato ragione.

Gino Strada esce di scena in un momento in cui la solidarietà tra i popoli segna il punto più basso dal dopoguerra ad oggi; la sua fine sembra quasi un segnale esiziale del dolore di questi anni pandemici, egoisti, pieni di follia e poveri di speranza. Lo ripeto, è difficile accettare il suo addio proprio ora che avremmo bisogno di una voce autorevole fra tante false e stonate.
Mi è piaciuto il ricordo che ne ha fatto sua figlia Cecilia a cui Gino aveva dedicato tanti passaggi del suo libro “Bukashi – viaggio dentro la guerra”. Cecilia, imbarcata sulla ResQ People e impegnata nel salvataggio di 85 naufraghi nel cuore del Mediterraneo, ieri ha commentato con poche parole la scomparsa del padre affermando che stava facendo quello che papà Gino e mamma Teresa gli avevano insegnato per tutta la vita: aiutare il prossimo. Forse il modo più autentico di dire addio ad un genitore così speciale.

Foto Cesare Abbate

A me e a tutti noi del Festival che lo abbiamo voluto a Napoli in quel crudele inverno 2018, mentre il Governo italiano arrestava Domenico Lucano e costringeva i migranti a stare chiusi nelle stive delle navi umanitarie bloccate nei porti siciliani, restano le sue parole dure e sincere, i pochi sorrisi strappati da Alex Zanotelli che lo avvolgeva nella sciarpa arcobaleno e lo stupore davanti all’oscar di cartapesta che è il simbolo del nostro Festival: un uomo a testa in giù che finalmente ha scoperto l’unico modo di comprendere questo mondo che va alla rovescia.
E resta un rimpianto su tutti, quello di non avere un autografo sulle pagine finali di “Bukashi”, dove Gino afferma che la Dichiarazione Universale dei Diritti dovrebbe essere stampata in formato pocket, per stare nelle tasche di tutti i ragazzi e nella mente di tutti gli uomini e le donne, per tutta la vita.

Caro Gino, il tempo spiegherà a tanti piccoli uomini quanta storia ieri è andata via con te e a noi resterà un brivido sulla schiena per averti stretto la mano, quel mattino tra i detenuti di Poggioreale, tra gli applausi e mille flash, lontano dagli occhi di quel mondo conformista che ti ha spesso voltato le spalle. Sapevo che non avresti eluso quell’appuntamento in prima linea, lo avevo immaginato per te con una punta di arguzia; un regalo agli ultimi della nostra società che, sentitamente, ti ringrazieranno per tanto tempo ancora per essere stati sempre nel tuo cuore di uomo generoso. Buon viaggio, uomo di pace.