Justin McIntosh, August 2004: commons.wikimedia.org/wiki/File:Unfinished_Israeli_wall.jpg

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La guerra scatenata da Israele contro la Palestina, all’indomani dell’uccisione dei tre giovani coloni israeliani in un’area, peraltro, sotto totale controllo israeliano, è in realtà una rappresaglia violenta ed una punizione collettiva nei confronti dell’intero popolo palestinese: demolizioni, bombardamenti, arresti, cento morti e seicento feriti, senza contare l’immane devastazione, in termini di dolore e sofferenza, di raccapriccio e terrore, che questa violenza ha innescato, solo nei primi giorni della campagna militare cinicamente denominata “Barriera Protettiva”.

Questa autentica aggressione, con l’imperiosa e improvvisa devastazione scatenata, non dovrebbe semplicemente accendere i riflettori di una (ennesima) emergenza, ma soprattutto ricordare al mondo che la guerra nei Territori Palestinesi Occupati, in realtà, non è mai finita. La Cisgiordania continua a subire la violenza di una costante colonizzazione, una lacerante sottrazione di terra e di libertà, la ferita obbrobriosa del Muro dell’Apartheid. Gaza è una autentica prigione a cielo aperto, il cui confine è presidiato dalle forze militari di Israele e da cui non è praticamente possibile né entrare né uscire. I palestinesi di Gaza, in trappola e sotto le bombe, vivono la situazione più disperata.

La matrice del conflitto non è nel terrorismo palestinese, deprecabile e contro-producente, contro Israele, ma nell’occupazione israeliana. Fa sempre un certo effetto dovere ricordare, nel silenzio e nell’oblio del mainstreaming mediatico, che i Territori Palestinesi di Cisgiordania e Gaza, sin dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, sono occupati dallo Stato di Israele, che è lo Stato occupante e, pertanto, responsabile della sicurezza, in particolare nell’area in cui è avvenuto il sequestro e l’uccisione, altrettanto deprecabile e contro-producente, dei tre giovani coloni israeliani. Il tentativo, da parte di Israele, di fare ricadere sulle spalle dell’Autorità Nazionale Palestinese, la responsabilità dell’accaduto, è un tentativo cinico e baro, una menzogna creata ad arte per giustificare la guerra, che punta a preservare lo status quo e distruggere l’unità nazionale palestinese, così faticosamente conseguita.

Oggi, nel pieno dell’aggressione israeliana contro Gaza, siamo esattamente a dieci anni dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia contro il Muro dell’Apartheid, costruito da Israele entro i confini della Cisgiordania, definito “contrario alla legge internazionale”, pericoloso in quanto costituisce un “fatto compiuto” che può determinare un “precedente grave”, in termini di segregazione di un popolo e di sottrazione di territorio, e “impedisce gravemente l’esercizio da parte della popolazione palestinese del suo diritto alla auto-determinazione, costituendo un’infrazione dell’obbligo di Israele a rispettare quel diritto”, riconosciuto e protetto dalla Carta delle Nazioni Unite.

La questione palestinese ha al suo centro l’occupazione militare israeliana, ed è fatta, da una parte, di apartheid e colonizzazione, dall’altra di diritti e speranze negate, a partire dal diritto di auto-determinazione e dal diritto al ritorno del popolo palestinese. Senza porre fine all’occupazione ed al colonialismo, come si comprende anche ad un’occhiata, superficiale e distratta, alla carta geografica, sarà impossibile una soluzione positiva del conflitto e il percorso pieno della pace.

Queste ragioni chiamano in causa noi tutti, la “comunità internazionale”, società civile e autorità istituzionali, complessivamente intesa. Israele non è uno “stato illegittimo” da fare scomparire dalla carta geografica; Israele è nella condizione di uno “stato criminale” che, attraverso gli strumenti del diritto e della giustizia internazionale, deve essere ricondotto nel consesso dei soggetti pari della “comunità internazionale”, né al di sopra della legge, né tributario di una grazia speciale di esenzione o di impunità. Sono circa settanta le risoluzioni delle Nazioni Unite di condanna dei comportamenti dello Stato di Israele; circa trenta le risoluzione dell’ONU violate da Israele, primo in questa “classifica”.

Serve un’assunzione di responsabilità. Ad esempio, mettendo al bando le attività economiche e i relativi investimenti nei Territori Occupati e cessando la cooperazione militare, a tutti i livelli, con Israele: bloccare la consegna a Israele dei jet M346, definiti “addestratori avanzati” ma in realtà già progettati per essere armati con missili o bombe, da usare, come è accaduto finora, prevalentemente contro i palestinesi; cancellare, sul piano della politica italiana, la cooperazione militare Italia-Israele (l. 17 maggio 2005, n. 94) e, sul piano internazionale, il programma di cooperazione individuale nel quadro della partnership NATO-Israele, varato il 2 dicembre 2008, alla vigilia di “Piombo Fuso”.

Ecco allora che il lavoro di documentazione e di solidarietà internazionale, unito a quello di contro-informazione e di sensibilizzazione pubblica, diventa decisivo. Di fronte alla portata della tragedia in corso, si è sempre portati a chiedersi cosa la cultura e il lavoro culturale possano fare. Cosa possa fare il cinema, con la potenza dei suoi mezzi espressivi e la forza della sua capacità evocativa. Nell’ultima edizione scuola del Festival del Cinema per i Diritti Umani, insieme con la presentazione dell’Atlante dei Conflitti, sono stati proiettati e discussi due film: “White Dress” ed “Engagement Ring” (Palestina 2012). Una testimonianza piccola, ma, con essa, anche un contributo significativo alla riflessione e alla conoscenza e, per questa via, alla solidarietà e al lavoro di pace e giustizia.

Come bene mette in luce una delle piattaforme di mobilitazione a sostegno della auto-determinazione palestinese e contro la guerra a Gaza, che si stanno moltiplicando negli ultimi giorni: « Opporsi a questo stato di cose non significa essere “antisemiti”, anzi, significa combattere ogni forma di razzismo, discriminazione e sopraffazione portando avanti rivendicazioni di libertà, democrazia e giustizia che accomunano tutti gli sfruttati e gli oppressi della terra, che quotidianamente lottano per conquistare diritti sociali e civili, culturali e politici; giustizia e libertà per un futuro dignitoso».

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