Napoli, 15 novembre 2011 – ottavo  giorno di Festival

La politica che non c’è e potrebbe esserci …

Ricordo a tutti che uno degli obiettivi del Festival è di portare Napoli al centro del Mondo attraverso la capacità di ascoltare gli altri, soprattutto quelli che vivono in situazioni di emergenza, tutti quelli che hanno qualcosa da dire perché non sono mai stati ascoltati e alla fine si sono messi ad urlare per attirare l’attenzione. Quest’obiettivo va perseguito nel cuore della città come nel Mediterraneo e oltre.

Prendiamo ad esempio la Tunisia e l’Egitto. Due grandi Paesi, nostri dirimpettai ma, a eccezione di qualche progetto di scambio commerciale e di cooperazione universitaria, non mi risulta che ci siano grandi e stabili rapporti tra Napoli e questi popoli che stanno cercando la loro collocazione nello scenario internazionale. In fatto di politica estera, la città è molto pigra, soprattutto dal lato istituzionale. Il festival oggi ha salutato due animate discussioni dedicate ai nostri “dirimpettai”, introdotte da altrettanti film sui moti di Tunisi e di Cairo, con tanto di ospiti e testimoni, accompagnate da un grande interesse di studenti e giovani. Nelle sale affollate del Suor Orsola Benincasa  e del Forum delle Culture abbiamo sentito il racconto di due avventure molto diverse perché diverse sono le storie che hanno portato ai nuovi equilibri, eppure se non fosse per gli attivisti sociali e i ricercatori che da anni seguono queste presenze a Napoli, si direbbe che il Nordafrica è lontano mille miglia da Napoli.

Malek Elgendy, giovane avvocato egiziano e difensore dei diritti umani, mi parlava delle violenze e degli abusi che la polizia sta facendo alla sua gente incarcerata, di quanto lontano sia un equilibrio politico e diversa la situazione con Tunisi, dove libere elezioni sono già avvenute e la marcia verso la democrazia pare già incominciata. Ma quanti di noi saprebbero spiegare ai propri figli la storia moderna dell’Egitto e della Tunisia? Dieci anni fa, per motivi di lavoro e turismo, ho incontrato l’Egitto. Chi ha conosciuto questo enorme Paese che per decenni è stato assistito dalle politiche nordamericane, ricorderà la sensazione di “polveriera” che esso dava ai visitatori, il malessere dei giovani che continuavano a sentirsi schiavi di una repubblica che aveva atteggiamenti da monarchia e di una democrazia che si preoccupava di assistere più che di incoraggiare i suoi cittadini a crescere e partecipare. Sessanta e più milioni di esseri umani tenuti in ostaggio di una politica di equilibrio nello scenario mediorientale, di cui si sapeva poco e che pure erano portatori di grandi tradizioni culturali e religiose. Oggi questo è stato sconvolto dai fatti di piazza Tharir e dal risveglio delle coscienze, ma prevedere le sue evoluzioni non è facile per nessuno, nemmeno per gli stessi egiziani. La cosa che più mi sorprende è che, come nel caso della Libia, il nostro Paese e le nostre regioni frontaliere (anche se c’è di mezzo il mare) non hanno preso quasi in alcuna considerazione la possibilità di stabilire dei contatti con questa gente che ha bisogno di essere accompagnata verso la transizione a nuove forme di cittadinanza e le delegazioni che attraversano il mare sono in genere composte da sparuti gruppi di studiosi, come un tempo avveniva per il Catai, senza un progetto comune e condiviso. Anche il Commercio Estero è stato soppresso e di internazionalizzazione si parla sempre meno.

Eppure, quando abbiamo fondato il Festival, pensavamo proprio a seguire momenti come questi, all’inevitabile esplosione del desiderio di partecipare il proprio futuro che gli anni Tremila ci avrebbero regalato. Non a caso abbiamo parlato dal primo momento di aprire la nostra manifestazione ai Paesi dell’arco mediterraneo, dal Maghreb ai Balcani, oltre che al Sudamerica. Non a caso nel 2007 e 2008 abbiamo seminato in Albania e ci apprestavamo a portare “Cinema e Diritti” in Serbia, ma ci rendemmo conto che le nostre forze erano troppo esigue per questa impresa, che ci sarebbe voluta un’istituzione di riferimento per tentare questa ambiziosa scalata.

Oggi, dopo avere attirato l’attenzione, l’anno scorso, sull’ambiguo rapporto che intrattenevamo con la Libia ed essere stati facili profeti, siamo ancora qui a cercare sostegno per la nostra campagna per una nuova politica estera, più vicina ai cittadini e meno chiusa nelle austere stanze della Farnesina, una politica regionale, fatta di scambi culturali e di ascolto, di cooperazione e di ospitalità, ricca di scenari per i nostri giovani e le imprese. I tempi ormai sono maturi e le coscienze credo siano abbastanza aperte a questa sfida, anche quelle dei nostri giovani che non guardano solo all’Europa del Nord e le unIversità possono sostenere questa sfida. Questo per noi si chiama cooperazione territoriale, a tutto tondo.

In breve, è troppo ambizioso pensare ad un luogo stabile di incontro ed ascolto di culture, religioni, aspirazioni comuni che si chiami Napoli?

Maurizio Del Bufalo